Pubblicato il Ottobre 26, 2024

Contrariamente a quanto si crede, un’etichetta “Articolo 8” o un nome “green” non garantiscono un investimento sostenibile.

  • Molti fondi “sostenibili” hanno esposizioni significative in settori controversi, con investimenti in armamenti cresciuti drasticamente sotto l’ombrello SFDR.
  • Le alte commissioni di gestione, spesso ingiustificate, possono erodere fino al 40% del capitale in 30 anni, annullando qualsiasi extra-rendimento “etico”.

Raccomandazione: L’unica difesa è un’analisi forense del prospetto, confrontando l’intenzionalità dichiarata con l’allocazione reale dei fondi e la presenza di obiettivi di impatto misurabili.

Il capitale destinato agli investimenti ESG è in costante crescita, alimentato da una domanda di sostenibilità che nessun gestore patrimoniale può più ignorare. Tuttavia, questa corsa all’oro verde ha generato un effetto collaterale tossico: il greenwashing finanziario. Molti investitori, anche i più esperti, si fidano delle etichette normative come la classificazione “Articolo 8” o “Articolo 9” del regolamento SFDR, credendole un sigillo di garanzia. La realtà, purtroppo, è molto più complessa e ricca di insidie.

L’approccio convenzionale, che si limita a verificare l’etichetta del fondo o a dare un’occhiata alle prime dieci posizioni in portafoglio, è diventato pericolosamente inadeguato. Dietro nomi altisonanti come “Future of Planet Earth” o “Sustainable Leaders” si possono nascondere strategie che fanno poco più di un leggero screening negativo, continuando a investire in società con pratiche ambientali o sociali discutibili. L’asimmetria informativa tra ciò che il marketing promette e ciò che la strategia del fondo effettivamente implementa è il terreno fertile del greenwashing.

E se la vera chiave non fosse cercare l’etichetta più “verde”, ma adottare la mentalità di un analista forense? Questo articolo non si limiterà a ripetere consigli generici. Fornirà invece una metodologia tecnica e un sano scetticismo per dissezionare un prospetto informativo. Impareremo a distinguere l’impatto reale da quello dichiarato, a valutare i costi nascosti dietro l’etichetta “sostenibile” e a capire quando la transizione energetica si traduce in profitti tangibili per gli azionisti, e non solo in belle parole sui report annuali.

Questo percorso analitico vi guiderà attraverso le sezioni cruciali di un prodotto finanziario ESG, fornendo strumenti concreti per prendere decisioni di investimento consapevoli e realmente allineate ai vostri valori, senza cadere nelle trappole del marketing. Esamineremo le differenze strutturali e i rischi specifici legati a fondi, obbligazioni ed ETF, sempre con un occhio critico e focalizzato sui dati.

Sommario: Analisi critica degli investimenti ESG per investitori consapevoli

Perché un fondo Articolo 8 non è necessariamente “ecologico” come pensi e cosa cercare invece?

La classificazione “Articolo 8” secondo il regolamento SFDR dell’UE è diventata onnipresente. Questi fondi, definiti come prodotti che “promuovono caratteristiche ambientali o sociali”, rappresentano la stragrande maggioranza dell’offerta ESG in Italia. Tuttavia, questa etichetta è un punto di partenza, non un certificato di virtù. La definizione è volutamente ampia e permette ai gestori un notevole margine di manovra, che spesso si traduce in strategie molto “light green”. Un fondo può qualificarsi come Articolo 8 semplicemente escludendo una manciata di settori controversi (screening negativo), senza alcun impegno attivo a selezionare aziende leader nella sostenibilità (screening positivo o best-in-class).

L’intenzionalità dichiarata nel nome del fondo o nel KIID può essere fuorviante. Il vero banco di prova è il prospetto informativo completo. Un’indagine di IrpiMedia ha rivelato una realtà sconcertante: da quando la Commissione Europea ha legittimato gli investimenti nella difesa come compatibili con la sostenibilità, si è registrata una crescita del 21% nell’esposizione dei fondi ESG al settore delle armi. Questo dimostra come le normative possano essere interpretate in modo da includere settori che un investitore etico riterrebbe inaccettabili, mettendo in luce una profonda discrepanza tra le aspettative del cliente e l’allocazione reale.

L’analisi forense di un prospetto Articolo 8 deve andare oltre le dichiarazioni di principio. È fondamentale cercare impegni quantificabili. Il documento specifica una percentuale minima di “investimenti sostenibili” (secondo la definizione SFDR)? Esistono processi di engagement attivo con le aziende per spingerle a migliorare le loro pratiche ESG, o il gestore si limita a un ruolo passivo? La presenza di verbi deboli e condizionali come “il fondo tende a”, “potrebbe considerare” o “generalmente preferisce” è un segnale di allarme che indica una mancanza di impegni vincolanti.

Piano d’azione: checklist per l’analisi di un fondo Articolo 8

  1. Strategia ESG: Verificare se il fondo si limita a uno screening negativo (esclusioni) o promuove attivamente criteri ESG con un approccio best-in-class o tematico.
  2. Linguaggio del prospetto: Isolare i verbi. Verbi concreti (“assicura”, “investe almeno il X%”) sono un buon segno; verbi condizionali (“potrebbe”, “tende a”) sono una bandiera rossa.
  3. Impegni quantificabili: Controllare se è dichiarata una percentuale minima obbligatoria di investimenti sostenibili e come viene calcolata.
  4. Processi di integrazione: Analizzare se, oltre alle esclusioni, esistono processi documentati di analisi ESG, engagement con le aziende o voto per delega (proxy voting) allineato a principi di sostenibilità.
  5. Reporting e misurabilità: Verificare la promessa di report di impatto periodici con obiettivi misurabili (es. riduzione dell’intensità di carbonio del portafoglio).

Come distinguere un’obbligazione verde che finanzia progetti reali da una che rifinanzia debiti esistenti?

I green bond sembrano l’incarnazione della finanza d’impatto: prestare denaro per finanziare specifici progetti ambientali. Tuttavia, anche in questo mercato esiste il rischio che i proventi non generino un impatto addizionale. Il pericolo principale è che un’azienda emetta un’obbligazione verde non per finanziare nuove iniziative, ma semplicemente per rifinanziare progetti già completati o costi operativi esistenti, apponendo un’etichetta “green” a spese che avrebbe sostenuto comunque. In questo caso, l’investimento non crea alcun nuovo beneficio ambientale.

La chiave per distinguere un’obbligazione d’impatto da una di marketing risiede nel “Green Bond Framework”, il documento che l’emittente pubblica prima dell’emissione. Questo documento deve descrivere con precisione le categorie di progetti ammissibili (es. energia rinnovabile, efficienza energetica, trasporti puliti) e, soprattutto, l’impegno a fornire un reporting sull’allocazione dei proventi e sull’impatto ambientale raggiunto. Un esempio virtuoso in Italia è il BTP Green, il cui report di allocazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) mostra in dettaglio come i miliardi raccolti siano stati destinati a categorie specifiche del bilancio dello Stato, come infrastrutture ferroviarie e incentivi per la riqualificazione energetica.

Analisi framework green bond con grafici allocazione fondi progetti

Il confronto tra obbligazioni verdi corporate e sovrane è illuminante. Mentre uno Stato come l’Italia con il BTP Green alloca i fondi a macro-voci di spesa pubblica validate, un’azienda potrebbe avere un incentivo maggiore a etichettare come “green” progetti che rientravano già nel suo piano industriale. L’analisi del framework e dei report successivi è l’unica via per verificare la solidità dell’impegno.

La tabella seguente, basata su un’ analisi comparativa del mercato italiano, evidenzia le differenze strutturali che un investitore deve considerare.

Confronto tra Green Bond Corporate e BTP Green in Italia
Caratteristica Green Bond Corporate BTP Green
Emittente Aziende (es. Enel, Hera) Stato Italiano (MEF)
Trasparenza allocazione Report annuali specifici per progetto Report MEF su macro-aree (trasporti, efficienza energetica)
Rischio addizionalità Maggiore (progetti spesso già pianificati) Minore (spese di bilancio validate)
Rendimento medio 2025 3,5-4,5% 3,65% (10 anni) – 4,10% (20 anni)
Tassazione 26% 12,5%

ETF “ESG Screened” o ETF “Clean Energy”: quale ha più volatilità e quale impatta davvero?

Nel mondo degli investimenti passivi, l’investitore ESG si trova di fronte a un bivio: scegliere un ETF “ESG Screened” ad ampia diversificazione o un ETF tematico focalizzato, come quelli sul “Clean Energy”. La decisione impatta drasticamente tre variabili: diversificazione, volatilità e impatto reale. Un ETF ESG Screened, come un MSCI World ESG Screened, tipicamente replica un indice di mercato globale escludendo solo le aziende coinvolte nei business più controversi (tabacco, armi controverse, violazioni del Global Compact ONU). Il risultato è un portafoglio molto simile all’indice standard, con centinaia o migliaia di titoli, bassa deviazione di performance (tracking error) e volatilità contenuta.

Dall’altro lato, un ETF tematico su energie pulite, mobilità elettrica o economia circolare è per sua natura estremamente concentrato. Investe in poche decine di aziende altamente specializzate, operanti in un settore soggetto a cicli tecnologici, regolamentari e di mercato molto rapidi. Questo comporta due conseguenze dirette: un impatto potenziale molto più diretto e misurabile (ogni euro investito finanzia specificamente la transizione), ma anche una volatilità significativamente più alta. Questi ETF sono più simili a scommesse settoriali che a componenti core di un portafoglio diversificato e non sono adatti a investitori con bassa tolleranza al rischio o orizzonti temporali brevi.

Confronto volatilità tra ETF ESG e Clean Energy con grafico rischio rendimento

La scelta dipende quindi dal ruolo che l’investimento deve avere nel portafoglio complessivo. Per un investitore “cassettista” che mira a una crescita stabile a lungo termine con un’impronta di sostenibilità (approccio “do no harm”), un ETF ESG Screened a basso costo (TER intorno allo 0,20%) è la scelta logica come nucleo del portafoglio. Per chi invece cerca di contribuire attivamente al cambiamento e è disposto ad accettare rischi maggiori in cambio di un potenziale rendimento e impatto superiori, un ETF tematico può rappresentare una valida posizione satellite (tipicamente non oltre il 5-10% del portafoglio totale). L’errore comune è confondere i due approcci, aspettandosi un impatto da rivoluzione copernicana da un ETF broad market o la stabilità di un indice globale da un ETF tematico di nicchia.

Il rischio di pagare commissioni del 2% solo per l’etichetta “sostenibile” erodendo tutto il rendimento

Uno degli aspetti più insidiosi del greenwashing è l’erosione da costi. Molti fondi a gestione attiva con etichetta ESG applicano commissioni di gestione (espresse dal TER, Total Expense Ratio) significativamente più alte rispetto alle alternative passive, giustificandole con il complesso lavoro di analisi e engagement. Se da un lato un’analisi ESG approfondita ha un costo, dall’altro l’investitore deve chiedersi se questo costo è proporzionato al valore aggiunto, sia in termini di performance finanziaria che di impatto reale. Pagare un TER del 2% o più per un fondo che si limita a escludere il tabacco è, a tutti gli effetti, una tassa occulta sulla buona fede dell’investitore.

L’impatto delle commissioni sul capitale nel lungo periodo è devastante. La magia (nera) dell’interesse composto funziona anche al contrario: costi elevati erodono anno dopo anno non solo il rendimento, ma il capitale stesso che lo genera. Un differenziale di costo dell’1,7% annuo tra un fondo attivo (TER 2%) e un ETF passivo (TER 0,3%) può sembrare piccolo, ma le sue conseguenze su un orizzonte di 20 o 30 anni sono drammatiche.

Questa simulazione, basata sui dati medi di mercato analizzati da esperti di investimenti a lungo termine, mostra chiaramente come i costi possano vanificare i benefici di un investimento.

Simulazione dell’erosione del capitale per differenza di costi (TER)
Periodo Fondo ESG Attivo (TER 2%) ETF ESG Passivo (TER 0,3%) Differenza
10 anni €81.700 €97.000 -15,7%
20 anni €66.800 €94.200 -29,1%
30 anni €54.500 €91.400 -40,4%
*Simulazione su capitale iniziale €100.000, rendimento lordo annuo 5%

Come analisti, il nostro compito è valutare se il gestore attivo può generare un alfa (extra-rendimento) tale da giustificare questo differenziale di costo. Nella maggior parte dei casi, la risposta è negativa. Pertanto, un fondo ESG con un TER superiore all’1,5% deve essere sottoposto a un esame estremamente rigoroso: deve dimostrare una strategia di impatto unica, un processo di engagement documentato e di successo, e una trasparenza radicale che giustifichi un premio così elevato. In caso contrario, l’investitore sta semplicemente pagando per un’etichetta.

Quando la transizione energetica diventerà profittevole per gli azionisti rispetto al petrolio?

Le grandi compagnie energetiche sono al centro del dibattito sulla transizione. Molte di esse, comprese le major italiane, comunicano piani ambiziosi di decarbonizzazione e investimenti massicci nelle rinnovabili, presentandosi come motori del cambiamento. L’analisi forense, tuttavia, richiede di andare oltre la narrazione e confrontare l’intenzionalità dichiarata con l’allocazione reale del capitale (Capex) e, soprattutto, con la provenienza dei ricavi e degli utili. Un’azienda può investire miliardi in rinnovabili, ma se questi investimenti generano una frazione marginale dei profitti rispetto al business tradizionale degli idrocarburi, la sua valutazione e il destino del suo titolo rimangono legati al petrolio e al gas.

La transizione diventerà finanziariamente profitteable per gli azionisti solo quando i ritorni sul capitale investito (ROCE) nelle divisioni “green” supereranno stabilmente quelli del settore oil & gas, e quando queste divisioni contribuiranno in modo significativo agli utili complessivi. Fino ad allora, gli investitori si trovano in una posizione scomoda: finanziano una “storia” di transizione la cui profittabilità è futura e incerta, mentre i dividendi attuali sono ancora pagati dai combustibili fossili.

Studio di caso: ENI e Plenitude, la transizione nei numeri

L’analisi del bilancio 2024 di Plenitude, la società di ENI per le rinnovabili e retail, è emblematica. Nonostante sia presentata come l’abilitatore della transizione del gruppo, l’attività rinnovabile rappresenta solo il 3,82% dei ricavi complessivi. Contestualmente, il piano strategico di ENI per il triennio 2025-2028 prevede investimenti per 7 miliardi di euro, ma continua a perseguire parallelamente l’esplorazione e l’estrazione di idrocarburi. Questo doppio binario dimostra come, ad oggi, il motore economico del gruppo rimanga saldamente ancorato al business tradizionale, rendendo l’investimento in ENI una scommessa sulla capacità del management di gestire questo complesso e graduale passaggio, piuttosto che un puro investimento “green”.

Per un investitore esperto, monitorare la transizione di una major energetica richiede una dashboard di indicatori chiave che vada oltre le dichiarazioni stampa. Bisogna seguire il prezzo dei permessi di emissione EU-ETS (un costo diretto per chi inquina), confrontare il costo livellato dell’energia (LCOE) delle rinnovabili con quello del gas in Italia, analizzare la percentuale di Capex realmente destinata alle rinnovabili rispetto al totale e seguire l’evoluzione del framework regolatorio europeo come Fit for 55 e RepowerEU. Solo così si può valutare se e quando la “nuova” energia diventerà il vero motore di profitto.

Il rischio reputazionale del greenwashing che allontana il 60% dei consumatori consapevoli

Il greenwashing non è solo una questione etica, ma un rischio finanziario tangibile. Quando un’azienda o un fondo vengono accusati di pratiche ingannevoli, le conseguenze possono essere rapide e severe. Il primo impatto è sul flusso di capitali. Gli investitori, sentendosi traditi, ritirano i loro soldi. Questo fenomeno è già visibile: un recente rapporto di Morningstar Sustainalytics ha evidenziato un dimezzamento degli acquisti netti di fondi sostenibili nel quarto trimestre del 2024, segno di un crescente scetticismo che erode la fiducia del mercato.

Questo deflusso di capitali crea un circolo vizioso: per far fronte ai riscatti, i gestori potrebbero essere costretti a liquidare posizioni in portafoglio in momenti sfavorevoli, realizzando perdite che danneggiano gli investitori rimasti. Per le aziende quotate, uno scandalo di greenwashing può portare a un crollo del prezzo delle azioni, poiché il mercato sconta il danno reputazionale e i potenziali costi futuri.

Oltre alla reazione del mercato, esiste un rischio regolamentare sempre più concreto. Le autorità di vigilanza, come la Consob in Italia e l’ESMA a livello europeo, stanno intensificando i controlli sulle comunicazioni di marketing dei prodotti finanziari. Una multa per comunicazione ingannevole non è un’ipotesi remota.

Una multa dell’AGCM è un costo diretto che impatta gli utili e quindi il dividendo o il prezzo dell’azione.

– Analisi IrpiMedia, Indagine su greenwashing e rischi regolamentari

Come sottolineato in un’analisi di IrpiMedia, una sanzione da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per pubblicità ingannevole si traduce in un costo diretto che erode gli utili, con un impatto negativo potenziale sul dividendo o sul valore dell’azione. L’investitore che sceglie un’azienda solo per la sua patina “verde” si espone quindi a un rischio specifico che un’analisi ESG più rigorosa potrebbe aiutare a mitigare. Ignorare il rischio reputazionale significa ignorare una variabile fondamentale nella valutazione complessiva di un investimento.

Finanziamenti “green” o credito ordinario: quale offre tassi di interesse più bassi oggi?

Una delle tesi a favore degli investimenti ESG è che le aziende e gli stati con un rating di sostenibilità più elevato dovrebbero poter accedere al capitale a un costo inferiore. Questo sconto sul tasso di interesse, noto come “greenium” (green premium), rappresenterebbe un vantaggio competitivo tangibile. Ma questo vantaggio esiste davvero nel mercato obbligazionario italiano? L’analisi dei dati suggerisce una risposta sfumata. In teoria, gli investitori dovrebbero essere disposti ad accettare un rendimento leggermente inferiore per un’obbligazione verde, a parità di rischio emittente, in cambio dell’impatto positivo generato.

Osservando il mercato sovrano italiano, questo fenomeno è a volte visibile, sebbene in misura contenuta. Ad esempio, nell’emissione di gennaio 2025, i dati del MEF hanno mostrato per il BTP Green a 10 anni una cedola del 3,65% contro un rendimento del 3,733% all’emissione, indicando una domanda così forte da spingere il prezzo sopra la pari e abbassare il rendimento effettivo per i nuovi acquirenti. Questo leggero “greenium” segnala l’appetito del mercato per strumenti di debito etichettati come sostenibili e con una struttura trasparente.

Tuttavia, il vero vantaggio per l’investitore italiano non risiede tanto nel “greenium” (spesso marginale), quanto nel trattamento fiscale. Le obbligazioni governative come i BTP, inclusi i Green, godono di una tassazione agevolata al 12,5% sui redditi da capitale, rispetto al 26% delle obbligazioni corporate. Questo rende il confronto diretto più complesso. Un green bond emesso da un ente parastatale come Cassa Depositi e Prestiti (CDP), anch’esso soggetto a tassazione agevolata, può risultare più attraente di un’obbligazione corporate tradizionale anche a parità di rendimento lordo. Uno studio di caso sul Green Bond di CDP ha mostrato come, a 8 anni, offrisse un rendimento sostanzialmente allineato a quello di un BTP a 10 anni, rappresentando un’alternativa interessante per chi cerca un impiego a medio-lungo termine con rischio contenuto e fiscalità vantaggiosa.

In conclusione, sebbene un leggero vantaggio in termini di costo del capitale per gli emittenti “verdi” esista, il principale fattore di convenienza per un investitore retail italiano che confronta debito “green” e tradizionale rimane spesso il differenziale fiscale tra titoli di stato (o equiparati) e obbligazioni societarie. L’etichetta “green” funge più da catalizzatore della domanda che da fonte di un significativo extra-rendimento netto.

Punti chiave da ricordare

  • Scetticismo come strumento: L’etichetta SFDR (Art. 8/9) è un punto di partenza, non di arrivo. La due diligence critica è l’unica difesa contro il greenwashing.
  • I costi uccidono i rendimenti: Le commissioni di gestione elevate (>1.5%) per fondi ESG “attivi” possono distruggere decenni di rendimenti. La loro giustificazione deve essere eccezionale.
  • Impatto vs. Marketing: Un vero investimento d’impatto finanzia l’addizionalità (progetti nuovi), non si limita a rifinanziare l’esistente con un’etichetta verde.

Investire in fondi etici rende davvero? Analisi dei rendimenti responsabili rispetto al mercato tradizionale

La domanda finale per ogni investitore, anche il più idealista, è pragmatica: investire in modo etico comporta una penalizzazione in termini di rendimento? Per anni ha dominato il preconcetto che escludere interi settori “profittevoli” (come petrolio, tabacco o difesa) significasse inevitabilmente sacrificare la performance. L’analisi dei dati di mercato, tuttavia, disegna un quadro molto più complesso e, per certi versi, incoraggiante. Confrontando indici di mercato tradizionali con le loro controparti ESG, emerge spesso una performance finanziaria comparabile, se non superiore, soprattutto su base corretta per il rischio.

Prendiamo il mercato italiano. Se confrontiamo l’andamento dell’indice principale FTSE MIB con un indice come il FTSE Italia ESG Screened, notiamo che le performance su 1 e 3 anni sono state storicamente molto simili. La differenza chiave, però, risiede spesso nella volatilità. Gli indici ESG, escludendo le aziende più controverse e spesso più cicliche o soggette a rischi legali e reputazionali, tendono a mostrare una volatilità inferiore. Questo si traduce in un migliore Sharpe Ratio, un indicatore cruciale per gli analisti che misura il rendimento per unità di rischio assunto. In pratica, a parità di rendimento, l’investitore ESG ha spesso “dormito sonni più tranquilli”.

Questo non significa che i fondi etici rendano sempre di più. I fondi tematici, come visto, possono subire periodi di forte sottoperformance. Inoltre, l’esclusione di settori come quello energetico ha penalizzato i portafogli ESG durante le fasi di rally dei prezzi del petrolio. Tuttavia, nel lungo periodo, la tesi dell’investimento ESG si basa su un principio solido: le aziende con migliori pratiche ambientali, sociali e di governance sono gestite in modo più efficiente, sono più resilienti agli shock esterni e sono meglio posizionate per attrarre talenti e capitali nel XXI secolo. Questo, nel tempo, dovrebbe tradursi in una performance finanziaria robusta.

Il dibattito non è più se l’investimento ESG renda, ma *come* misurare questo “doppio rendimento”: quello finanziario e quello di impatto. L’investitore consapevole deve quindi porsi le domande giuste: qual è il mio obiettivo primario? Escludere il male (screening negativo) o finanziare attivamente il bene (impact investing)? Sono disposto ad accettare una volatilità maggiore per un impatto più diretto? La risposta a queste domande definisce la strategia corretta e permette di valutare il successo non solo in termini di euro, ma anche di coerenza con i propri valori.

Ora che avete gli strumenti per un’analisi critica, il passo successivo è applicarli. Valutate il vostro portafoglio attuale con questo nuovo sguardo forense e identificate dove l’intenzionalità dichiarata potrebbe non corrispondere all’allocazione reale, trasformando il vostro capitale in un vero motore di cambiamento sostenibile.

Scritto da Elena Rossi, Consulente Finanziaria Indipendente (CFA) iscritta all'Albo OCF, esperta in investimenti ESG e pianificazione patrimoniale con 12 anni di attività. Specializzata in educazione finanziaria e gestione del risparmio per famiglie e investitori privati.